Produttore del mese

Walter Massa, il vino soprannaturale

Una lunga chiacchierata fuori dagli schemi, all'insegna della libertà

Tra i colli Tortonesi, a intravedere il futuro del vino

La giornata è grigia, coperta di nuvole, mentre l’oltrepò pavese scorre nei finestrini e sfuma nei colli tortonesi. Attraversiamo paesi che evocano altri tempi, paesi che parlano della storia d’Italia, fino a Volpedo, patria di quel Pelizza che tra gli altri dipinse il celeberrimo Quarto Stato. Da lì si stacca una strada quasi nascosta che in pochi minuti sale quasi verticale fino a Monleale, patria di Walter Massa, il “padre del Timorasso” e molto di più: dalle sue parole traspare una visione netta, un amore sconfinato per questo territorio e per il lavoro agricolo, un pensiero ampio e controcorrente che fa sì che “gli altri siano costretti a inseguire”.
1.

Naturale e soprannaturale

Il tempo purtroppo non permette di visitare le vigne, ma questo significa solo poter assaggiare i vini di Walter con più agio e parlare del suo modo di vedere il vino, una visione che unisce in modo inestricabile l’uva all’intelligenza di chi la lavora:

“il vino naturale non esiste, non è che l’uva finisca in cantina da sola, c’è sempre un pensiero umano che la lavora. Se la scienza la usiamo per correggere le diottrie degli occhi, non capisco perché non possiamo usarla per fare il vino. Tanto che, estremizzando due concetti contro l’immaginario collettivo, io dico e dirò sempre più forte ‘viva il tappo a vite’ e ‘viva la vendemmiatrice meccanica’”.

Di tappi a vite ne abbiamo già parlato, e Walter ci conferma non solo che, com’è ovvio, il tappo a vite conserva perfettamente il vino com’è stato imbottigliato, ma ormai la tecnologia permette di avere la micro-ossigenazione necessaria per fare evolvere vini diversi in modi diversi e garantire la giusta permeazione come da progetto – e questo concetto, che il vino è prima di tutto un progetto, tornerà spesso nelle sue parole. “Uso questi tappi anche perché ho rispetto di chi beve il mio vino, e pretendo che chi lo sceglie beva prima di tutto pulito, poi etico e soprattutto sempre uguale. E aggiungo: voglio che possa dire, se il vino non gli piace, che Walter Massa sta perdendo colpi, che ha deluso, e non che Walter Massa è stato sfortunato perché i tappi non erano buoni. Per questo nel 2023 avrò ancora quattro vini rossi con tappo classico, ma il mio obiettivo è di arrivare al 2030 con solo tappi a vite”. Ma in fondo i tappi a vite, lentamente, si stanno affermando anche in Italia. Siamo più sorpresi e interessati dalla scelta della vendemmia meccanica, che solitamente si associa solo al vino di qualità mediocre, e questo timorasso Montecitorio che stiamo degustando di mediocre non ha neanche l’ombra.
“Ho la fortuna che la mia azienda serva per fare i test per una ditta che ha rilevato la Gregoire, uno dei leader nella produzione di vendemmiatrici: quest’anno me ne hanno mandata una in prova e vi anticipo che l’ho già acquistata per la vendemmia 2023. Già quest’anno l’abbiamo usata per vendemmiare circa il 50% della vigna ed è una gioia infinita”. Walter ci tiene a sottolineare che non c’è da preoccuparsi che qualcuno perda il lavoro, anzi vuole che la sua squadra segua tutto il lavoro in vigna durante l’anno e ne veda i frutti durante la vendemmia, ma “non siamo più stressati dal fare turni sabato e domenica o dal fatto che l’uva si rovini per il caldo o la pioggia, e riusciamo a portare in cantina esattamente quello che serve. Certo bisogna attrezzarsi in cantina perché un conto è portare 60 quintali al giorno e un conto è portarne il triplo, ma non è quello il problema. E soprattutto: non puoi più sbagliare, perché controlli molto di più il momento in cui vendemmiare”.

La vendemmiatrice, ci racconta Walter, lavora in maniera delicata, e l’uva colpita dal sole, o marcia, o immatura, rimane sulla pianta. L’unico problema può sorgere se uno ha le vigne piantate a girapoggio – ovvero in quota, a seguire orizzontalmente la collina – perché si rischia il ribaltamento della macchina. Ma nel tortonese storicamente le vigne vengono piantate a rittochino (come abbiamo già incontrato da Andrea Picchioni) perché in questa zona c’è un problema idrogeologico: le frane sono all’ordine del giorno. Piantando le vigne a girapoggio “stimoli delle sacche sottoterra che in caso di pioggie soverchie si fermano, e il terreno frana: è un disastro economico, uno scempio ambientale e un’offesa per chi come noi lavora con dedizione e precisione. Il rittochino permette invece all’acqua di fluire molto meglio. E alla fine la fatica è uguale, nessuno corre in vigna, bisogna camminare, e camminare in una direzione o nell’altra poco cambia”.
E i terreni su cui si cammina in queste zone sono spesso molto minerali, a esaltare freschezza e sapidità, ma anche molto vari: tanto calcio, tanto calcare, ma in alcuni vigneti ci sono terreni argillosi, marne o terra rossa. Una grande varietà che fa emergere caratteristiche diverse nelle uve.

2.

Da dove è iniziata

“Per fare il vino prima bisogna essere psicologi, poi filosofi, poi avere un po’ di testa. E poi sì, la fortuna aiuta, come quando nell’’87 abbiamo fatto la prima vinificazione di Timorasso, nel ’90 abbiamo piantato la prima vigna, e ricordo che quell’anno io a giugno ero a un convegno e a casa i miei genitori a innaffiare contro il caldo. Ma ci ho messo dieci anni a capire che bisognava investire sul Timorasso – tenta con la Barbera, tenta con la Croatina, tenta con il Cortese, capivo che lavoravo con un fuoco che non ardeva. Ho vissuto in prima persona le canzoni degli anni sessanta, come quella di Tenco, ‘Guardare ogni giorno se piove o c’è il sole, per saper se domani si vive o si muore’”. Forse non a caso è la stessa canzone che ci ha citato Andrea Picchioni. D’altronde i due oltre a essere amici e collaborare in tanti progetti (tra cui Iria, un interessante progetto che vede tutti i vignaioli della zona contribuire con una damigiana per andare a creare quattromila bottiglie di un blend che unirà la barbera di Tortona con la croatina dell’Oltrepò) sono due dei produttori che più rappresentano le idee, le ambizioni e l’anima di questa parte d’Italia.
E poi ovviamente c’è il discorso economico: “dovevo capire a quanto poterlo vendere. Tutto è ancorato alla logica, e così lo era il prezzo, e il prezzo deve stare al passo con i tempi. Il primo prezzo del mio Timorasso era la media tra i due Gavi buoni di questa zona. Poi mi sono posizionato via via sempre più su bianchi importanti e di successo, fino a quando mi sono potuto permettere di ampliare la vigna mantenendo il prezzo”. Il discorso dalla produzione dei Vigneti Massa si amplia a quella di tutta la zona, perché per quanto Walter sia stato un grandissimo promotore e la persona che ha messo sulla mappa i colli tortonesi e il timorasso, è l’intero sistema che deve crescere per sostenersi sempre di più. In questo momento esistono 330 ettari di timorasso nel tortonese, ma il territorio sta vivendo con 140 ettari, perché gli altri non hanno ancora prodotto. Questo parla di un territorio in crescita, che ancora non ha espresso il suo potenziale: il mercato attende quel vino, ma manca ancora molto. Secondo Walter “occorrerà arrivare almeno a due milioni di bottiglie prodotte nel territorio (in questo momento siamo circa a metà) per poter fare volano e creare interesse. Certo ci sarà più concorrenza, ma se il vino è buono la concorrenza non è un problema”. Questo della produttività e del volano per creare interesse è un altro tema che incontriamo spesso – è qualcosa di cui ci hanno parlato soprattutto Cesare e Silvia Corazza a proposito del pignoletto.
Pungoliamo Walter, che ha reso grande il timorasso e l’ha promosso in tantissime testate italiane – fino ad arrivare con il consorzio ad avallare la collaborazione per il film di Giovanni Veronesi Non è un paese per giovani, dove proprio all’inizio fa la sua comparsa un “Timoroso” – e gli chiediamo se all’estero sia conosciuto anche per altri vini. Sorride, perché la domanda gli piace: “in Italia il rapporto bianchi e rossi e sproporzionato verso il bianco, l’Italia è ancora drogata dal fattore timorasso, è partita la moda. L’estero non ha subito la grande spinta mediatica che alla fine io ho fatto in Italia. Quello che succede è che all’estero il mio direttore commerciale, il dottor Timorasso, ha fatto sì che tanti importatori venissero e scoprissero gli altri vini, la barbera, la croatina, tutti i vitigni locali che coltivo: non ho mai ripudiato la barbera, non ho mai amato i vitigni forestieri. E dato che all’estero il consumo di rosso è più importante rispetto al bianco, lì vendo molto più rossi”. E assaggiando un trionfale Monleale 2014, una magnifica barbera ricavata in un’annata difficile, ci viene da pensare che non abbiano tutti i torti, all’estero.
Ma sui vitigni locali non bisogna essere integralisti per moda: ora è di moda tornare indietro, ma bisogna tornare indietro sulle cose sensate, “non quelle bisbetiche. Per esempio non bevo vini di produttori che imbottigliano con bottiglie in vetro che pesano più di 750 grammi, mi sembra un errore sia ambientale sia economico: se devo spendere preferisco spendere su un tappo, non su una bottiglia”. Meno vetro nella spazzatura, più vino nella pancia.

Sorseggiando il Monleale 2014, vino che esce con già 7-8 anni sulle spalle, ci viene da riflettere sugli affinamenti lunghi, e su come siano spesso una necessità. “Il vino è come il corpo umano, ha bisogno di tempo per raggiungere il suo equilibrio”. Se sai tutto quello che succede anche a monte della vinificazione puoi provare a romperlo, come quando filtri il vino, togliendo i colloidi protettori. “Idem se tu interagisci con del bicarbonato di potassio, che sulla Barbera è normale, vai a modificare il PH e rovini il suo equilibrio. Ci sono grandi vignaioli del Barbera in Piemonte che escono e hanno grande successo con vini del 2020 – si vede che io sono talmente ignorante che non sono capace di arrivarci prima: però io sto con la natura, e attendo che trovi il suo equilibrio. Ho duecentomila bottiglie ferme, e non mi preoccupa per niente. L’importante è l’etica, far star bene gli altri e noi con noi stessi”.

3.

Il futuro

La conversazione volge al termine, e avendo parlato tanto del presente e del passato, avendo capito meglio la visione profondamente etica, e in fondo politica, di Walter, è inevitabile chiedergli qualche parola su come vede i prossimi anni: d’altronde è un riferimento per tanti produttori, è stato uno dei fondatori della FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti) di cui ha lasciato il consiglio d’amministrazione a inizio anno. “Vedo un clamoroso ritorno a terra. In questo momento ci sono tante aziende serie che lavorano bene e con qualità, e tanti ‘imparati’ che dovrebbero arrivare alla ragione. Ci sono troppi vini che sono falsi modesti, vini fatti dall’enologo, con un percorso puramente tecnico – tecnica che ci vuole, ma se manca il piacere, se manca la sensibilità del produttore, non si va da nessuna parte. Erasmo da Rotterdam diceva che il vino è un riflesso della mente, e la mente deve vedersi nel tuo vino”. Enologi che tra l’altro spesso lavorano su più regioni, e inevitabilmente sono spesso portati ad applicare protocolli standard, che di per sé non è un errore, ma rischia di far smarrire la territorialità, il modo di fare, l’unicità di quel posto e di come si è sempre lavorato in quel posto. “Anche per questo mi sono sempre rifiutato di fare uno spumante, perché come posso andare sul mercato con uno spumante prodotto in vigne da cui ricavo vini fermi da 14 o 15 gradi, e arrivare con uno spumante da 12? Non riesco neppure a raccontarlo.

L’etica sta nel rispettare la natura seguendo i suoi passi. Certe materie, come gli enzimi, nel vino non vanno usate, e i protocolli dovrebbero essere quelli che ci ha lasciato chi è venuto prima. Perché alla fine il vino si fa solo con l’uva, e insieme all’uva ci vanno due soli prodotti: il buonsenso e il tempo, che è quel bene di cui gli artigiani non possono fare a meno, e che gli industriali, in tutti i campi, non possono comprare”.

Il buonsenso è anche quello di capire cosa serve, tanto che Walter ha acquistato una nuova vigna ad altitudine maggiore rispetto alle altre ed esposta a nord, perché gli servivano delle uve più acide e meno concentrate. Monleale, dove ha tutte le vigne nel raggio di due chilometri, è infatti esposta benissimo, a est e a ovest, e storicamente ha sempre prodotto vini molto ricchi. La nuova vigna “fa lo slalom con l’effetto serra, ed è una vigna che mi aiuterà a creare un vino più equilibrato con quello che chiamo ‘vignaggio’, ovvero facendo un blend di vigne. Perché il vino è un progetto, non un colpo di fortuna”.

4.

Il compito del vino

Scivoliamo facilmente in un discorso più apertamente politico, chiacchierando del fatto che il mondo del vino possa e debba rivestire anche un ruolo guida per l’agricoltura, “insegnare al mondo a fare agricoltura”.
D’altra parte è il mondo più ricco all’interno del settore agricolo, e quello più influente. “E il vino ha due vantaggi clamorosi: rispetto a prodotti come i formaggi o la frutta, il vino in poche ore può essere dall’altra parte del mondo, e soprattutto ha l’etichetta, la riconoscibilità. Sta a noi saperlo comunicare, per esempio uniformando le etichette, così da dare una garanzia anche a chi si avvicina alla bottiglia – per esempio sai che se bevi Damijan Podversic bevi alla grande”. È farsi alfieri di un certo mondo perché il vino è inevitabilmente sempre firmato, e l’etichetta è la faccia del produttore. E il fatto che ora tanti ristoratori segnalino i nomi dei produttori da cui si riforniscono è anche grazie al vino.
“Solo che ci sono due problemi: da una parte il lato peggiore del mercato, e dall’altro le cantine sociali. Nella GDO ci sono troppe bottiglie di vino che costano meno del Tavernello, e per cui devi pagare vetro, tappo, etichetta, trasporto, scatola: com’è possibile?” Allora davvero è meglio bere Tavernello, che è pulito, fatto con precisione, onesto.
“E poi ci sono le cantine sociali, che hanno ambizioni politiche ma non hanno il concetto di cuore, e continuano a pagare le uve molto meno del costo di produzione, causando solo disaffezione”. E ancora ci torna in mente Andrea Picchioni quando ci raccontava delle “cantine sociali che di sociale hanno poco, perché pagano pochissimo le uve”. Dalla sostenibilità economica d’altra parte non si esce, come proviamo a raccontare da sempre anche noi: se vuoi fare un lavoro, qualsiasi lavoro, all’insegna dell’etica, nel modo migliore possibile, quel lavoro deve essere riconosciuto e devi essere messo in condizioni di continuare a farlo. Anche raccontando la fatica e le idee dietro quel lavoro. Ancora Walter: “se per l’uva, per cui il lavoro sono 400 ore all’anno per ettaro, non porti a casa almeno 20mila euro all’ettaro, c’è un problema”. E quindi i seicentomila ettari di vigna in Italia devono prendere dignità economica. E i modi possono essere tanti, anche lavorando su operazioni collettive: “con i contributi della UE delle piccole cantine potrebbero prendere linee di confezionamento per arrivare ad ammortizzare il costo della macchina e imbottigliare a regola d’arte, o addirittura acquistare altri attrezzi per il governo della terra mantenendo il possesso della terra e del proprio cervello”. Forse la chiusa migliore per questa chiacchierata è una frase che Walter tira fuori parlando del perché non gli piaccia la definizione di vino naturale: “il vino deve essere buono e basta, deve essere etico, non patetico”.