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Lodi Corazza, l’equilibrio sopra la follia

Una bella chiacchierata con Silvia e Cesare Corazza, sulla costruzione dell'identità e il saper attendere e ascoltare l'uva.

"Tante cose le fai per sensibilità ed esperienza, perché hai sempre pestato questa terra ed è parte di te"

Bologna d’estate è l’idea stessa di caldo, una piana bollente in un luglio asfissiante, e neanche fare qualche chilometro nei primi colli e arrivare a Ponte Ronca aiuta: ma la fatica vale la pena, perché veniamo ripagati da una bellissima chiacchierata con Cesare e la sorella Silvia, Yin e Yang di Lodi Corazza, chiacchierata che è un saltare tra passato e presente, un affondare le radici nella storia e nella tradizione, prima di tutto la tradizione di un vitigno, il Pignoletto, che è sinonimo stesso di Colli Bolognesi, e della ricchezza di un territorio che ha sempre premiato la diversità – che sia di culture, con l’apertura verso l’esterno da ricca città universitaria, o di coltivazioni. “Qui il pignoletto è spesso stato coltivato maritato al gelso, cosa che al contadino permetteva di avere reddito tutto l’anno, dato che il gelso era fondamentale per la filiera della seta, che qui nel bolognese era importantissima, tanto che chi aveva seta da vendere non pagava il dazio – e quindi magari riusciva a entrare in città con qualcosa nascosto, che fossero uova o vino, da vendere”. Questo è parlare con Cesare: capire come la storia ci parla in continuazione, e scoprire la sensibilità necessaria ad ascoltare: la storia, l’uva, il territorio.
1.

La storia

Il territorio dei colli bolognesi non è intensivo, basta guardarsi attorno per vedere che c’è tanta biodiversità: l’agricoltore ruota le coltivazioni, per cui di fianco al vigneto vediamo spesso il girasole, il frumento o altro, cosa che difende dai problemi derivanti dallo sfruttamento della monocoltura. “Questo però vuole anche dire che il contadino bolognese aveva sempre tanto da fare, e la vigna alla fine era messa dove non si poteva coltivare il resto: qui le priorità erano canapa, frumento e frutta”. E poi il bolognese è una zona ricca, “il contadino qui stava bene, aveva sempre della carne, era una zona fortemente produttiva per lo Stato della Chiesa. Anche per questo storicamente il bolognese ha sempre voluto assaggiare cose che venivano da fuori, e metteva un po’ in un angolo le cose locali con cui era cresciuto. Paradossalmente si riavvicina alle cose locali quando queste iniziano a ricevere riconoscimenti dall’esterno”. Prova ne sia che la provincia ha sempre bevuto Pignoletto, il vino principe della zona, mentre la città sta ricominciando negli ultimi anni, da quando il turismo è esploso.
“In famiglia facciamo partire la nostra storia di vinificazione nel 1877, quando abbiamo il primo documento di vendita di ‘uva pignola’. Nel 1975 è nato il Consorzio Vini Colli Bolognesi, e noi ne abbiamo fatto parte da subito. Dal 1970 in poi i nostri genitori, come tanti agricoltori della zona, hanno dismesso l’allevamento e si sono focalizzati sulla produzione di vino – io e mia sorella siamo nati con i piedi nella vigna, e nelle altre colture che abbiamo, perché coltiviamo molti cereali e semi da sovescio e riproduzione, dato che qui non tocchiamo le erbe”.
Tra i filari cresce infatti ancora alta l’erba di primavera, e sfiorando il terreno si sente la terra ancora fresca nonostante la forte siccità: non per niente le foglie sono ancora verdi.
“Quello che puntiamo a fare è un’agricoltura sana, tanto che dai primi anni Novanta facciamo lotta integrata nel vero senso della parola, dato che integriamo diversi tipi di gestione del vigneto – in alcuni casi possono essere scelte biodinamiche, in altri si può anche scegliere di fare un piccolo trattamento – ma solo se la situazione lo richiede, non trattiamo mai preventivamente. Così abbiamo pochissimo utilizzo di gasolio, poco calpestio e grande sostenibilità dei prodotti usati”.
A Cesare non piacciono le etichette: “bio, naturale, chimico e non chimico mi sembrano creare ulteriori divisioni in un settore già abbastanza diviso: bisogna parlare di salubrità dell’uva, di portarla bene a maturazione e fare un prodotto che è sano e fa stare bene, durante e dopo il consumo. Non bisogna attaccare stereotipi al vino, bisogna berlo e stare bene, è lui che deve parlare”.

2.

Il Pignoletto

E a parlare qui è prima di tutto il Pignoletto. “Abbiamo puntato molto da subito sul Pignoletto perché mia sorella e io abbiamo sempre sentito parlare di questo vitigno, ci siamo cresciuti in mezzo, ci accompagnavano alle prime riunioni del consorzio. E poi è un vitigno complicato, cosa che ti sprona, soprattutto perché è un vitigno a cui sei affezionato, è il vitigno del luogo, quello con cui sei cresciuto, che senti e puoi rendere davvero tuo”.
Il vitigno autoctono è prima di tutto un vitigno che se la cava sempre bene nella zona, anche con il cambiamento climatico. La buccia spessa del pignoletto lo difende infatti dal punto di vista agronomico, ma lo rende al tempo stesso più complesso dal punto di vista enologico: “è più complesso da lavorare, va conosciuto molto bene, devi sapere che va raccolto maturo. A me non interessa l’acidità, mi interessa di più andare a estrarre grande mineralità, che garantisce equilibrio al vino. Negli anni Ottanta si parlava spesso del Pignoletto come vino con note amare – e ricordo che mia sorella e io ci dicevamo che un vino amaro non poteva essere piacevole. Infatti l’amaro era l’esito di vendemmie troppo anticipate, tese a mantenere l’acidità che però dopo la vinificazione davano forti note erbacee e sgradevoli. Facendo scelte diverse, ascoltando il vitigno, attendendolo, rimane solo una nota di ritorno di mandorla amara che dà al contrario grande eleganza e pregio”.
Parlare con Cesare per tanti versi ricorda quello che è stato parlare con tanti viticoltori che abbiamo già incontrato, da Andrea Picchioni, suo amico, a Salvo Foti. Ed echi di Foti si hanno proprio nel mantra di Cesare, quando ci dice che “alla fine il vino si fa con uva, tempo e buonsenso”, e a maggior ragione un vino frizzante come il Pignoletto DOC. Buone maturazioni, pressature molto soffici, mosti eleganti. Poi serve il tempo: le fermentazioni qui durano anche un mese, le permanenze sui lieviti anche oltre l’anno.
Questo modo di lavorare è inestricabilmente legato al fatto che il Pignoletto si è saputo adattare alla zona, anche se “è stato portato qui, lui uva greca che arriva nel bolognese grazie agli Etruschi, perché era un tardivo, quindi si inseriva bene nel modo di vivere dei contadini di qui. Alla fine la scelta è sempre dell’uomo, delle sue esigenze”.

3.

L'identità

E le esigenze erano quelle di agricoltori che avevano tante altre coltivazioni da seguire, prima tra tutte la canapa, e di clienti che erano privati, che non finivano la bottiglia in un giorno, quindi chiedevano che il vino rimanesse uguale, con una bollicina molto fine: da qui le lunghe permanenze sui lieviti. Ma non solo: “lunghe permanenze sui lieviti permettono anche di avere sempre in cantina una pasta di lieviti che diventa l’identità della tua cantina, che diventa riconoscibile, ma che deve comunque sempre rispettare l’uva del territorio. Devo essere in grado di sentire un vino di dieci anni fa e riconoscere l’uva, il tratto distintivo del territorio. Perché l’uva è la bandiera del territorio, un’uva Pignoletto di Ponte Ronca è inimitabile nel mondo – può piacerti o non piacerti, ma queste caratteristiche le avrai solo qui”.
E un’identità riconoscibile vuol dire anche che “la nostra filosofia è sempre la stessa, a prescindere dalle mode: negli anni Novanta non facevamo vini legnosi, quando tutti ci si buttavano, come ora non facciamo vini torbidi, con il fondo o con rifermentazione in bottiglia trasparente. Quindi il vino lo otteniamo in cantina, ma lo progettiamo in vigna, nel lavoro quotidiano, nell’ascolto dell’uva”. Poche uve per ceppo, impianti fitti a cordone speronato, così che le uve riescano a comunicare tra loro; poi, esperienza e buonsenso.
“A me in questo momento, con questa siccità, l’uva non sta dicendo niente: dice solo aspettami, difendimi, e sarà lei a un certo punto a dirmi ‘vinificami frizzante, vinificami ferma’. È lei che parla, tu ti muovi di conseguenza, non c’è altro che ti possa consigliare bene come lei. Noi stessi non abbiamo certezze, sono esperimenti continui, tante cose le fai per sensibilità ed esperienza, perché hai sempre pestato questa terra ed è parte di te”. Ancora una volta ritroviamo tante assonanze tra i vignaioli con cui parliamo: l’ascolto dell’uva, della pianta, è lo stesso di cui ci parlava Marilena Barbera. Ed è interessante che Cesare dica che in questo momento l’uva gli chiede solo di aspettarla: “le vendemmie sono lunghe con questo caldo, la mia impressione è che quelli che parlano di vendemmie precoci non facciano realmente vino. Collaboriamo da trent’anni con il CNR, e anche i valori che vediamo con le loro ricerche ce lo confermano. La pianta con queste temperature si mette in isolamento, va lenta. A questi ritmi, se non piove, l’uva maturerà a novembre. Matureranno i tannini e i semi, ma non si raggiungerà la maturazione giusta per fare un buon vino”.

4.

Il territorio

Inevitabile chiedere, a chi di questo territorio è da sempre una bandiera, quale sia lo stato attuale delle cose nei Colli Bolognesi: “ci sono tanti giovani che stanno iniziando a lavorare e collaborare tra loro, prendendo vigneti e piantandoli. Certo il territorio è schiacciato dai grandi nomi del Sangiovese in Romagna e del Lambrusco nel modenese”. Diventa l’occasione per raccontare una zona nuova e poco conosciuta, e lo si può fare in tanti modi: da un lato lavorando con i ristoratori, che stanno iniziando a dare una mano importante in una città come Bologna che è cresciuta molto dal punto di vista turistico in questi anni. È un racconto che fai principalmente nel tuo territorio, uscirne è più difficile – lo fai con le degustazioni, mettendo il vino nel bicchiere, ma è un lavoro complesso: si tratta, come spesso, di trovare il consumatore che sia interessato e sappia capire quello che fai.
“Per il resto, qui attorno sono in tanti a essersi un po’ improvvisati viticoltori”, ci dice Silvia, la sorella di Cesare, che nel frattempo ci ha raggiunto, e il dialogo diventa una chiacchierata in cui i fratelli quasi si completano le frasi a vicenda: “questo purtroppo ti porta spesso a seguire le mode, perché un territorio di non vignaioli corre dietro ai nomi senza guardare a quello che hai in mano. Se non hai un’identità inevitabilmente imiti”. E il problema è che si finisce a imitare il Prosecco, a cui il Pignoletto è spesso, a torto, paragonato. Il vino bolognese infatti è un vino di maggior struttura, da pasto, che può e deve andare a sostenere la cucina (“e se pensi che la cosa più leggera nella cucina bolognese è la mortadella…”, aggiunge Cesare). In quest’imitazione si fanno spesso Pignoletti con un residuo zuccherino sempre maggiore, vini che tradiscono l’identità del territorio, che da tradizione lo vorrebbe secco. Ma soprattutto “non puoi pensare di andare a fare concorrenza al Prosecco con un territorio che fa un milione di bottiglie, contro 750 milioni, con un vino che è diverso. E non puoi pensare di combattere sui prezzi, con una produzione del genere”. Quello che puoi fare è lavorare con l’identità del territorio, con il legame con la tradizione culinaria locale, “l’interesse lo costruisci dal basso, devi farti conoscere dall’utente comune”, ci dice Silvia.

5.

Silvia

Già, Silvia, l’altra metà di Lodi Corazza: ha fatto studi scientifici, con una tesi sui lieviti, “ed era giusto che la teoria fosse messa in pratica”. E in azienda era necessario dividersi i compiti – il lavoro più duro in vigna lo segue Cesare, mentre la cantina, con degli aiutanti, Silvia, “anche perché è molto più precisa”. Poi è ovvio che sia un’azienda familiare e artigianale, quindi le decisioni sono prese insieme, i vini sono frutti del lavoro di entrambi.
“Lei è bianca e io sono nero, ci metti insieme e siamo il Tao perfetto. Poi gli anni ti smussano, io divento un po’ più preciso, e qualcosa di dissidente emerge anche in lei”. Sembrano davvero il bianco e il nero per certi versi, istrionico lui quanto riservata lei. Ma quando la senti parlare del suo lavoro capisci che lei e il fratello sono davvero due parti di un tutto.
“Ho avuto di recente una bella occasione di scambio con dei vigneron dello champagne, e loro per primi hanno confermato che il lavoro che devi fare è sull’identità e sulla sostenibilità. Cesare ha portato questo approccio in vigna tanti anni fa, e anche il lavoro in cantina va in questa direzione, per esempio nel fare tagli con delle basi acide che ricavi dalle uve e non da prodotti chimici”.
Lodi Corazza sta infatti piantando alcuni vitigni storici della zona, il Montuni, l’Alionza, la Cioccarella, “che ci interessano soprattutto per andare a correggere alcune caratteristiche del Pignoletto: sono vitigni che mantengono una forte acidità, che può servire a dare più spinta a quella del Pignoletto”. L’idea è utilizzare vecchi vitigni per ricavare basi che serviranno a migliorare uno spettro che negli anni sarà sempre più in deficit di acidità. In questo territorio infatti per fare un grande bianco sai di dover raccogliere l’uva tardi, quando è ben matura, e sai che per questo andrai a perdere in acidità. Da un lato si va a esaltare la componente minerale, la sapidità che deriva dal terreno portato qui quando una volta c’era il mare: da questo punto di vista i tre anni di zonizzazione che Silvia e Cesare hanno fatto agli inizi, per capire bene i terreni (qui prevalentemente argillosi, a impasti diversi), sono stati fondamentali. Ma la cosa più interessante è che si può utilizzare la vigna come fornitrice di materia prima: “non vogliamo andare a correggere con acido tartarico o altro, vogliamo usare la vigna. Lo facciamo già con l’Albana, che non avrebbe senso vinificare qui, fuori zona, ma che ci può aiutare fornendo un po’ di dolcezza quando serve. In fondo il vino si fa con l’uva: calano le produzioni, aumentano le qualità, il territorio deve seguire, è l’unico modo di valorizzare le cose”.
Il rapporto tra la precisione di Silvia e l’estro di Cesare dà vita a nuovi esperimenti: è lui che a volte propone di fare vini che da un punto di vista enologico susciterebbero dubbi: “passi trent’anni a potare, trovi un grappolo rimasto tutto l’inverno a prendere ogni tipo di gelate, c’è un acino che è ancora in buone condizioni, lo assaggi ed è eccezionale, e pensi che quando abbiamo vinificato il Pignoletto non era così buono, e ti chiedi perché non provare. È ovvio che il vino viene buono – poi migliorerai, aggiusterai, ma si parte dal guardare e ascoltare l’uva”. Sono tutti vini nati dall’osservazione, dall’assaggio, dalla passione, dalla curiosità, e “in fondo sono venuti molto da soli, e poi sono entrati nella carta dei vini. Alla fine nel tempo hai sviluppato questo equilibrio”. Un equilibrio fatto di estro, impegno, identità. Anche di noia, che diventa fucina di creatività, perché le idee le trovi anche “nella ruota che gira, quella del trattore: è un lavoro lungo, lento, noioso, ma è una noia che ti spinge a pensare. Alla fine è in quei momenti che il cervello divaga, e in cui vengono idee che poi mettiamo in pratica”.
Come dice Silvia, “serve la passione, anche perché se non ci fossero burocrazia e balzelli il nostro sarebbe un lavoro bellissimo”. Un equilibrio instabile, in continuo divenire. Un equilibrio, sopra la follia. Ma che vini. Che vini.