Tema del mese

Libiamo ne’ lieti calici

Un viaggio nelle tante corrispondenze tra opera e musica

Dopo tanti viaggi nello spazio, facciamo un viaggio della mente e dell'anima, scoprendo come vino e musica si parlino

A settembre vi portiamo in un viaggio diverso dal solito: non più alla scoperta di territori e terreni, di vitigni nascosti o vini prodotti in zone impossibili. Il nostro è un viaggio dell’anima, in un certo senso, anche un po’ per aiutare il rientro in città. È un viaggio nella musica, che scopriremo avere tante cose in comune con il mondo del vino. Più di preciso, è un viaggio nell’opera: più avanti ci dedicheremo al pop o ad altri generi, ma per ora abbiamo pensato che mescolare vini molto diversi sarebbe stato come se noi offrissimo sakè, birra e vino. L’opera, quindi. Ma da dove partire? Praticamente in ogni opera c’è il vino: a volte un brindisi allegro; a volte un ubriaco, a volte un veleno messo nel vino. Facile parlarne, quindi. Ma parla anche di vini e vitigni italiani, l’opera?
1.

Da Mozart a Rossini

La risposta è sì! Partiamo da qualcosa di inatteso: nel Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, si cita esplicitamente il Marzemino. Ed ecco allora il marzemino di Cobue, una delle nuove cantine che ci fanno compagnia questo mese. È possibile che la citazione del Marzemino sia stata opera di Lorenzo da Ponte, che scrisse il libretto del Don Giovanni: originario di Vittorio Veneto, e che ha risieduto a lungo nella zona pedecollinare del padovano, dove un tempo il vitigno era fortemente diffuso. È in omaggio al grande librettista italiano che torna quindi Gregoletto cantina storica della Valdobbiadene.

Da Mozart saltiamo in Italia, e partiamo dal gourmand per eccellenza, quel Gioachino Rossini che amava particolarmente tartufi, fois gras, tacchini ripieni, prosciutti e zamponi: nella sua vita, la sala da concerto e la sala da pranzo erano aspetti complementari dell’arte di vivere. Si faceva spedire prelibatezze da tutta Europa: da Napoli faceva arrivare i maccheroni, da Siviglia i prosciutti, da Gorgonzola il formaggio, da Milano il panettone. I regali a lui più graditi erano le mortadelle, gli zamponi, o comunque cose da mangiare; fondamentali per Rossini, specie sull’insalata e i maccheroni, erano i tartufi spediti da Ascoli.
L’amore di Rossini per la buona cucina e il buon vino matura certamente nei primi anni della sua vita, vissuti a contatto con i profumi e i sapori del territorio delle Marche. Immediatamente ci è venuto da pensare a Colle Jano, piccola cantina che sta lavorando meravigliosamente con il Verdicchio.
Rossini “scriveva a sua madre rallegrandosi che un certo vino di Castenaso era migliore delle annate precedenti, o rispondeva a un amico definendo il vino che gli aveva inviato debole di colore e di bouquet, e quando venne a mancare, nella sua cantina di Parigi vennero trovate quantità cospicue di Marsala, Siracusa, Orvieto, Vin Santo, Chianti, e vini toscani, che il compositore sposava a formaggi valtellinesi, a Gorgonzola e a salumi modenesi”.
Rossini è stato anche un enologo di tutto rispetto, conosceva i problemi inerenti alla vinificazione e alla conservazione del liquido. In una lettera al padre, dopo aver esposto nei minimi dettagli il sistema per chiarificare il Bordò, aggiunge preziosi consigli, dal lasciare “riposare otto giorni il vino, poscia lo metterete in bottiglie, e che vi sia quasi due dita di distanza tra il turaccio e il vino, essendo questa aria necessaria” al fatto che “mi son scordato di dirvi che i turaccioli di sugaro prima di metterli nelle bottiglie hanno bisogno di essere bagnati con dell’acquavita, e questo per due motivi, il primo è quello di inumidire il turacciolo affinchè chiuda la bottiglia, il secondo è quello di evitare che il turacciolo secco non dia un cattivo gusto al vino, ciò che succede qualche volta allorchè la qualità di questi non è buona”.
Il secondo omaggio che gli facciamo è andando a ripescare una sua opera giovanile, La gazzetta, in cui si cita il vino campano “di Somma”. E chi meglio di Bosco de’ Medici a rappresentare il vino di Somma Vesuviana?

2.

Viva Verdi!

Passiamo a un altro grande compositore italiano: il 7 gennaio 1901 (ovvero venti giorni prima della morte) l’ottantottenne Giuseppe Verdi si fece servire nel suo appartamento del Grand Hotel di Milano: risotto alla certosina, branzino bollito con maionese, bue brasato, costolette d’agnello, carni alla parmigiana, tacchino arrosto, insalata, dolce, frutta, gelato al rum. Il tutto con cambio di quattro vini.
Il padre di Giuseppe Verdi era proprietario di una piccola osteria a Roncole di Busseto in cui si vendevano vino, liquori, caffè, zucchero e altri generi alimentari: da qui probabilmente derivò l’amore e l’attenzione che il grande compositore dimostrò sempre nei confronti della terra e dei suoi prodotti. Il Maestro amava profondamente il vino e non appena le finanze lo consentirono acquistò i terreni circostanti la Villa di Sant’Agata (fra Parma e Piacenza, non lontana dal Po), in cui subito fece impiantare un’ampia vigna.
Tra i prodotti più amati in casa Verdi: la spalla cotta di San Secondo e gli anolini, abbinati a un buon bicchiere di Gutturnio dei Colli Piacentini o di Malvasia dei Colli di Parma.
Passione che condividiamo, soprattutto se il Gutturnio e la Malvasia sono quelli di Torre Fornello.
La storia verdiana è ricca di aneddoti: se pranzava al ristorante Concordia comandava un fiasco di Chianti e, se ne avanzava, traeva un pezzo di carta, vi scriveva sopra il suo nome e l’infilzava al collo del fiasco, dicendo al cameriere: “Domani sia lo stesso Chianti”. Nella campagna di Sant’Agata ha anche cercato di produrre un proprio vino di qualità.
In una sua lettera all’editore parigino Leone Escudier, Giuseppina Strepponi il 4 luglio 1867 scriveva: “Il suo amore per la campagna è divenuto mania, follia, rabbia, furore, tutto ciò che si può immaginare di più esagerato. Egli si alza al nascere del giorno per andare a esaminare il grano, il mais, la vigna. Rientra morto di fatica e allora come trovare il modo di fargli prendere la penna?”.
Infine, ma potremmo andare avanti a lungo, non dimentichiamo che una soprano americana, ha associato l’opera del Maestro più fosca, piena di fuoco, metallo e cenere, ossia Il Trovatore, al Nerello Mascalese, un vino di un vulcano attivo, dove ben conosciamo I Vigneri di Salvo Foti.

3.

La Sicilia di Mascagni

Con Mascagni e la sua Cavalleria Rusticana rimaniamo in Sicilia, sempre nella zona dell’Etna, a incontrare gli splendidi spumanti di Murgo. L’opera si svolge infatti in un paese della provincia di Catania fra gente non ricca e il vino spumeggiante di cui si canta non è champagne, ma spumante siciliano.

Viva il vino spumeggiante
Nel bicchiere scintillante
Come il riso dell’amante
Mite infonde il giubilo!
Viva il vino spumeggiante
Nel bicchiere scintillante
Come il riso dell’amante
Mite infonde il giubilo!

Viva il vino ch’è sincero,
Che ci alleta ogni pensiero,
E che affoga l’umor nero
Nell’ebbrezza tenera.
Viva il vino ch’è sincero,
Che ci alleta ogni pensiero,
E che affoga l’umor nero
Nell’ebbrezza tenera.

4.

Tornando verso Nord

Anche il grande Brahms amava i vini siciliani, mentre con Puccini ci torniamo a spostare al nord: i rifornimenti di buon vino gli arrivavano da Montecarlo, colline toscane care alla sorella Ramelde e zona conosciuta e apprezzata per l’ottima produzione. Puccini aveva attenzioni anche su altri prodotti di qualità per la sua casa, i suoi ospiti e i suoi amici. Tra gli amici aveva il marchese Antinori e, in una lettera del 1914, gli scriveva: “Caro Piero, mi dicono che avete prodotto lo champagne di un grande aristocratico”.
Rimaniamo in Toscana con Ferruccio Busoni e il suo Arlecchino, oder Die Fenster:

Non vi ho chiesto un consulto.
Le vostre tinture,
le fiale, le goccie,
buon dottore,
certamente non valgono
un solo fiasco di Chianti
gustato sotto il cielo di Toscana.

Ed essendo in Toscana, sediamoci a un tavolo con Busoni, Verdi e Rossini, tutti amanti del Chianti, e stappiamo una bella bottiglia di Fattoria Fibbiano.
Potremmo andare avanti a lungo, perché l’incontro tra opera e musica è fertile, ricco, gioioso. Dal Bordeaux de L’Elisir d’Amore di Donizetti, al Falerno di Jone, ossia L’ultimo giorno di Pompei di Errico Petrella, fino al Cecubo del Nerone di Mascagni, questi sono solo alcuni esempi del modo in cui il vino è stato e tuttora è, nel vero senso della parola, cantato.
Chiudiamo ai giorni nostri, con un’opera scritta pochi anni fa, Le barbatelle, del musicista premio Oscar Luis Bacalov su pezzi di Mozart (e il libretto di Francesca Verducci e Giancarlo Cignozzi) in cui i protagonisti sono i maggiori vini italiani e francesi, impegnati in un acceso diverbio. E se si parla di “vitigni da novanta”, impossibile non pensare al Piemonte di Diego Morra, o all’Oltrepò Pavese di Calatroni e Mon Carul. Soprattutto perché in quest’opera Nebbiolo e Pinot Nero sono alleati contro il terribile Duca di Cabernet Sauvignon, che ha inondato di sé il mondo.
Infine, c’è una cantina che riunisce tutti questi compositori, non perché ne abbiano parlato, ma perché li ha suonati tutti: è il Vignale di Cecilia di Paolo Brunello, violoncellista che ha appeso l’archetto al chiodo e produce ora splendidi vini nella tenuta di famiglia, nei colli Euganei.