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Damijan Podversic: saper porre le domande giuste

Una chiacchierata con Damijan Podversic, maestro del vino italiano: la ricerca, le sue trenta vendemmia, e vedere il futuro nella figlia Tamara.

"Era molto in salita, la strada, è stata dura, ma non avrei potuto scegliere mestiere migliore".

Da un angolo remoto d'Italia Damijan Podversic ha saputo parlare a tutti, e dopo tanti anni ai vertici possiamo dire che i suoi sono veramente grandi vini. Ma non sono i colori e l'armonia del suo vino a colpirti più di tutto, ma l'energia irrefrenabile che trasmette, tra sorrisi, pacche sulle spalle e una stretta che ti spacca la mano. Ma se ascolti le sue parole ti perdi e capisci che quell'energia nasce dalla gioia di fare un lavoro splendido nel migliore dei modi, e dalla fortuna di avere accanto a sé una figlia, Tamara, capace e pronta a prendere in mano l'azienda. I vini, l'energia, le parole: nulla in Damijan lascia indifferenti.
1.

Il bello nascosto

C’è una calma allegra durante la vendemmia nella vigna del Redentore, l’unica in piano dell’azienda Podversic, di San Friulano del Colle, Gorizia. C’è il sole che indora i grappoli di malvasia, i canti degli uccellini che saltano da una chioma all’altra, gli zip zip delle cesoie dei raccoglitori e le loro chiacchiere in sloveno. Che non capiamo, e assumono quindi la stessa musicalità dei cinguettii. Più grave quella dei maschi – che sono tre e si chiamano tutti Josko – più vivace quelle delle donne, tra cui ci sono Elena e Tamara, moglie e figlia di Damijan Podversic, il titolare dell’azienda. Che al momento non c’è, e proprio alla sua assenza è dovuta la suddetta calma della vigna. Perché al suo arrivo, annunciato dal rombo di un trattore in velocità, la situazione cambia. Scende con un balzo, urla ordini diversi in giro, saluta con grandi pacche sulle spalle, e con un gran sorriso ci porge una mano che potrebbe appartenere a un orso.

Ha una simpatia naturale, contagiosa, e un fisico possente che lo colloca sempre al centro della ribalta. Saliamo con lui sul trattore, facciamo qualche ripresa mentre vengono caricate le cassette cariche d’uva, poi decidiamo di riprendere qualche grappolo sulle viti, e chiediamo a Tamara di mostrarcene qualcuno di particolarmente bello. Ci mostra un paio di grappoli smorti, brunastri, ricoperti da una leggera patina di muffa grigiastra. Alle nostre facce perplesse Tamara ride, e ci spiega che si tratta di botrite nobile, la versione ricercata della botrite comune, che può distruggere interi raccolti. Questa è apprezzata perché asciuga l’acino rendendolo particolarmente dolce, e dà vita a vini particolarmente ricercati.

2.

Il percorso di famiglia

Tamara ha un’espressione serena, grandi occhi azzurro-verdi su un ovale dolce, ma lascia intuire un carattere forte, una volontà decisa. Ha scelto di restare in azienda, per continuare il percorso di famiglia. Già il bisnonno aveva delle vigne, poi il nonno, per cercare maggiori guadagni, aprì un’osteria. Nel ’73 comprò altra terra, e il figlio Damijan, quando è stato il suo momento, ha deciso di fare sul serio.
“Siamo una terra di confine – racconta Tamara – queste colline hanno visto due guerre mondiali, e quello che oggi sembra un paradiso è stato un inferno. Nasce così il nome del monte Calvario, la collina dove poggia la nostra azienda, per le vittime dei combattimenti.
L’azienda è di 12 ettari, di cui 10 in produzione. Ma in un ettaro il numero di piante può essere molto diverso, e allora mio padre non parla di ettari ma di viti. Al momento le piante lavorate sono 70.000, altre 20.000 sono state piantate da poco. Per cui, a regime, l’obiettivo sarà quello di lavorare 80/90.000 ceppi per circa 30/40.000 bottiglie prodotte”.

Siamo piccoli, e così vogliamo restare, per ottenere il massimo della qualità per i nostri vini. In fondo, abbiamo una bocca sola.

Tamara è già molto addentro alla vita aziendale, sta già cominciando a prendere iniziative indipendenti, come le prove di macerazione con un tino tutto suo, fatte senza ascoltare il parere del padre. Con la sua determinazione, farà certamente bene.

3.

Quel fuoco che si accende

Per intervistare Damijan occorre aspettare la fine del pasto, allegro come può esserlo quando la vendemmia fila via liscia, poi che avvii la pigiatura delle uve, e infine che accolga degli ospiti venuti da lontano. Insomma, è solo al tramonto che possiamo averlo tutto per noi, comodamente seduto in mezzo alla vigna di ribolla gialla.

“Questa terra apparteneva all’impero austro-ungarico, e tutte le primizie a Vienna arrivavano da qui. L’annessione all’Italia fu una sfortuna, ma neanche poi tanto, visto che se ci annetteva la Jugoslavia sarebbe stato molto peggio”. Poi fa un gesto largo con la mano, indicando il paesaggio intorno, “Le colline furono abbandonate, la gente cercava il lavoro in fabbrica, più sicuro. Qui avere una bicicletta era come avere una Mercedes, e andare a vendere il vino a Udine era più difficile che oggi andare a venderlo a New York. Io sognavo di fare il viticoltore già a dodici anni, ho cominciato molto presto. Poi ho incontrato Elena, è stata la mia fortuna, abbiamo condiviso tutti i progetti”.
Hanno avuto tre figli, ma “solo in Tamara ho visto quella luce speciale negli occhi… quel fuoco che si accende quando si parla di vigna, di vino. Io facevo lo stesso con mio padre, chiedevo del nonno, delle potature, dei suoli, e le stesse domande lei le faceva già da piccola.

È un dono, questa voglia di guardare i colori, riconoscere i sapori, imparare sempre cose nuove.

Il discorso di Damijan torna spesso sull’importanza dei sensi, del comprendere la campagna con tutto il corpo, non solo con la mente. È scettico sul percorso di studi delle scuole enologiche, secondo lui manca la conoscenza del linguaggio della natura, legato ai colori, agli odori e ai sapori. E allora “meglio studiare filosofia, che insegna a porre le domande giuste quando occorre. Non ragioni solo con la tecnica, spesso legata a spicciole considerazioni economiche, ma impari a guardare più avanti, alle prossime generazioni. Quando studiavo cercavo la ricetta del vino. Ho capito poi che non serve a nulla, l’unico ingrediente che si usa da mille anni è un po’ di zolfo”.

4.

Mescolanze

Queste colline hanno terreni ideali per la frutticoltura, adeguatamente lavorato durante l’inverno il suolo (le rinomate ponche) con il caldo non si spacca, e trattiene così l’acqua durante l’estate. Sono colline particolarmente vocate per i bianchi; si produce anche un rosso, il Prelit, ma l’azienda è conosciuta soprattutto per i suoi vini bianchi. Resiste ancora qualche vigna di chardonnay, ma dal ’91 vengono piantati solo vitigni autoctoni; a seconda del terreno e dell’esposizione, si alternano vigneti di ribolla gialla, malvasia e friulano (che per Damijan resterà sempre Tokaj).

Per raccontare le sue uve, Damijan si avventura in poetiche visioni di affascinanti ragazze, “il friulano è come quella bellezza che noti a cento metri di distanza, e non le stacchi più gli occhi di dosso. Mentre la ribolla gialla è come una ragazza che passa inosservata, ma se ti ci siedi al tavolo da quel tavolo non ti alzi più, perché scopri la sua bellezza interiore. È questa la differenza tra un vitigno aromatico come il friulano, che lega la sua forza all’esteriorità, la parte olfattiva, e la ribolla gialla, che punta invece sulla profondità in bocca”.
Il consiglio del padre fu: ”Se vuoi fare un grande vino, devi mischiare le bellezze delle donne”. Nacque così il Kaplja, il vino che meglio rappresenta l’azienda, un blend dove ai vini aromatici, malvasia e friulano, si accompagna lo chardonnay, che verrà sostituito nei prossimi anni dalla ribolla gialla.

Allunga un braccio verso un grappolo, ne stacca un acino e lo spreme, mostrandoci i vinaccioli: “La vite non sa che fa vino, la vite lavora per far maturare i semi contenuti nell’acino, per continuare la propria specie. Noi dobbiamo anticiparla e vendemmiare quando i semi sono maturi, prima che cadano al suolo. La maturazione fenolica è il presupposto per una grande annata, e solo una volta ogni dieci anni si raggiunge la maturazione completa in tutta la vigna”.

5.

Trenta vendemmie

Ha sempre amato pensare in grande, e i suoi progetti li ha messi su carta: “Teniamo da parte 3.000 bottiglia l’anno, da aprire alla terza generazione. Solo così capiremo se i nostri sono grandi vini. Questo l’ho scritto 35 anni fa, e ho fatto il mio. Ora tocca a Tamara, e poi chi verrà dopo avrà per le mani dei prodotti veramente importanti”.

Oltre che in grande, pensa anche al futuro: “Oggi sono alla fine del mio percorso di viticoltore, ho dietro Tamara che scalpita. Nella vita, a un vignaiolo spettano trenta vendemmie, ed io ne ho fatte anche di più perché ho cominciato presto. E se hai qualcuno dietro che sogna, è giusto permettergli di fare le sue trenta vendemmie. Io ho la fortuna di avere Tamara, che sogna in grande, e farà anche meglio di me, visto che salta da un trampolino più alto. E allora mi sto preparando a fare questo cambio generazionale, che avverrà nei prossimi anni. Anche perché c’è un altro cambio da fare, devo prendere il posto di mia mamma nell’orto. Non è che vado via, questo è un posto bellissimo e Tamara avrà bisogno di un aiuto, però il capo sarà lei, ed è giusto che sia così”.

Nessun rimpianto, anzi, “Era molto in salita, la strada, è stata dura, ma non avrei potuto scegliere mestiere migliore. Il vino è l’alimento dell’anima, è arte. Certo non è un prodotto salutare, contiene alcol. Ma se devi incontrare un amico, non c’è bevanda più spirituale del vino. E deve essere un grande vino”.